Una terribile avventura ...


di Emilio Mallarini **
Il mio più importante ... mancato appuntamento con la morte fu un altro: è quello che posso definire il secondo “miracolo” (dopo quello di essere entrato in Aeronautica). Il fatto che sto per raccontare avvenne nel settembre 1940, durante un trasferimento da Vicenza alla base di Aviano. In precedenza, il destino aveva voluto darmi un segno della sua benevolenza.
 Nella formazione degli equipaggi, fra due disponibili al momento, a me era toccato il velivolo n. 9 e a un altro gruppo il 7. E proprio questo apparecchio, pochi giorni dopo, andò incontro alla sua tragica fine. Mentre, dopo due ore di volo regolare, stava per arrivare all’aeroporto di Vicenza, improvvisamente si era visto del fumo bianco uscire da un motore e poi questo aveva preso fuoco. Era evidentemente stato tentato un disperato atterraggio di emergenza, ma tutto fu inutile: l’aereo esplose a terra.
Ci furono tre morti subito e il quarto componente dell’equipaggio morì poi in ospedale, dopo atroci sofferenze. Dunque, per quella volta, grazie al gioco del caso nell’assegnazione degli equipaggi, l’avevo scampata bella. Ma non potevo sapere che, pochi giorni dopo, il destino si sarebbe messo in agguato anche contro di me.
E veniamo dunque al racconto di quella brutta avventura. Ci stavamo trasferendo ad Aviano su un trimotore destinato alla Scuola Apparecchi da bombardamento. lo facevo parte come motorista dell’equipaggio, composto anche da un sottotenente primo pilota e un sergente secondo pilota. Il quarto “passeggero” era uno che non avrebbe nemmeno dovuto esserci: era un maresciallo che abitava a Pordenone e, dovendo andare in licenza a trovare la famiglia, aveva chiesto all’ultimo momento un passaggio.
Quando avvenne il dramma, eravamo prossimi alla fase di atterraggio. Il secondo pilota proveniva dalla caccia e non aveva ancora una grande esperienza di quel tipo di aereo. Questa può essere la spiegazione dell’errore che commise: una virata troppo stretta, che rischiò di farci precipitare di botto. Allora si mise a girare freneticamente il volantino a destra, ma l’apparecchio andava a sinistra.
Nei terribili attimi successivi, mentre il panico si impadroniva di tutti noi, ho sentito urlare l’ordine di staccare i contatti e l’ho fatto (quando poi sono stato sbalzato fuori dall’apparecchio, avevo ancora in mano l’interruttore dei magneti). L’aereo si è messo in stallo e poi è venuto giù di colpo.
Con gli occhi pieni di terrore, vidi la terra che stava per inghiottirmi e gridai: “Mamma mia, aiutami!”, invocando, appunto, quella mamma che non avevo mai conosciuto.
L’aereo ha prima toccato terra bruscamente con l’ala sinistra inclinandosi paurosamente, poi è andato a sfasciarsi, con un forte boato, su un prato a margine della pista d’atterraggio. Nell’urto, fui catapultato fuori a una quindicina di metri di distanza dall’apparecchio. Incredibilmente, non mi feci nemmeno un graffio. Quasi incredulo di essere ancora vivo, rimasi un po’ inebetito, incapace di emettere un solo suono dalla gola, a contemplare il terribile spettacolo che si offriva alla mia vista, in un improvviso, spettrale, silenzio di morte. Poco distante dai rottami dell’aereo giaceva scomposto, come un burattino a cui avessero troncato i fili, il corpo del povero maresciallo, che certo era morto sul colpo.
Era in un lago di sangue, con il cranio spaccato in due. Era finita così, in una tragedia, la sua sospirata licenza. Poco discosto, stava, semi accovacciato, con una vistosa ferita al capo e il volto imbrattato di sangue, il sergente. Si lamentava flebilmente, come se piangesse di un pianto sommesso. Non ho mai saputo, poi, se sia sopravvissuto, cavandosela con qualche settimana di ospedale, oppure no.
Il primo pilota, invece, era rimasto incastrato fra i rottami di quel che rimaneva della cabina di pilotaggio. Era totalmente massacrato: aveva le gambe maciullate, lo sterno schiacciato e tagli e ustioni su tutto il corpo.
A un tratto lo sentii invocare: “Aviere .... aviere!”. Forse, chissà come, si era reso conto che ero rimasto l’unico a potergli dare un qualche aiuto. Mi riscossi dal torpore in cui ero caduto e corsi da lui. Gli sollevai il capo, mettendogli sotto un paracadute e cercai di confortarlo, mentre tamponavo alla meglio qualche ferita. Ma non c’era niente da fare: le sue condizioni erano disperate e, difatti, sarebbe morto in ospedale il giorno dopo.
Intanto erano arrivati i soccorsi e tutti si davano da fare freneticamente, mentre io ero tornato a sedermi sul prato, come stordito, e guardavo in silenzio quella scena come se si trattasse di un film. A un tratto, ho sentito qualcuno gridare: “Ma il quarto dov’è?”, perché, evidentemente, non mi avevano visto fra i corpi esanimi. Allora ho ritrovato il fiato per gridare: “Sono io!”.
Si sono occupati subito anche di me e mi hanno portato all’ ospedale di Pordenone, dove mi hanno fatto restare due o tre giorni per precauzione e poi mi hanno dimesso, perché tanto non avevo niente di rotto e il grande spavento ormai mi era passato.


** Il racconto è stato tratto dal volumetto
“Una lettera e qualche miracolo – frammenti
di vita di un aviere motorista” (72
pagine, formato 14x21 cm) pubblicato dall’autore,
s.ten. mot. (to), poco prima del
suo decesso avvenuto nel 2007, libretto
che gli interessati possono chiedere, al costo
di € 5,00 comprese le spese di spedizione,
alla sezione AAA di Grosseto – Via
Mazzini 75, 58100 Grosseto - telefono:
0564 418177.


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