Ricordi di un tempo tanto, tanto lontano

di Umberto Bernardini
Racconto tratto dalla Rivista "Aeronautica"


La Reggia di Caserta
Questo non è un fantasioso racconto; è di converso il resoconto esatto, accurato e perfettamente ricordato di quanto avvenne in un ormai remoto 1940, e precisamente nella terza decade di quell’ottobre che segna altresì la data di inizio della mia non breve vita militare.
La mia sconfinata soddisfazione era più che legittima perché, poffarbacco, avevo partecipato e vinto un Concorso di Stato, un Concorso di Stato ripeto, per l’ammissione come allievo nella Regia Accademia Aeronautica che, all’epoca, aveva sede nella Reggia vanvitelliana di Caserta...
Era per me motivo di particolare soddisfazione l’aver conseguito questa ammissione senza alcun intervento esterno, leggasi senza raccomandazione alcuna, ma solo come frutto della mia volontà, della mia caparbia ambizione, della mia normale preparazione culturale scolastica, a base classica, nonchè del mio brevettino di pilota d’aliante.
I partecipanti a questo Concorso erano stati nientepopodimenochè 3224 sbarbatelli come me; quelli idonei alla visita medico-legale 1792; quelli idonei al Concorso 291; ma, gli ammessi allievi in Accademia solo 247, inutile dirlo. . . tutti fusti... A Roma, al Palazzo degli Esami, nella prova scritta avevo azzeccato un bel tema; a Caserta invece l’esame orale di matematica era stato quasi un naufragio (maledetto... Gauss, diamine, ma chi era costui?) che mi fece retrocedere al 77° posto nella classifica del Concorso; comunque ben accettabile per far apparire il mio nome stampato addirittura sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, che ... come tutti sanno, non è davvero Il Corriere dei Piccoli!
Per rendere edotta e compartecipe della meravigliosa notizia la numerosa parentela, ed anche per salutare ed ottenere dagli zii la mancetta di 50 lire, allora di prammatica per chi partiva per la naja, cominciai il giro dei saluti.
Al che, uno zio, fratello di mio padre, mi disse che un nipote diretto della moglie, mia zia, prestava servizio in Accademia; me ne dette il nome dicendomi di cercarlo e di salutarlo. Soprattutto per cortesia verso il generoso zio - ricordo bene - presi il nome mettendolo con una certa noncuranza nel mio portafoglio. lo non avevo bisogno di nessuno, io!!!
Il 25 ottobre 1940, come primo impatto con la mia nuova vita di soldato, entrò nell’aula della 2ª Compagnia del Corso Vulcano, cui ero stato appena assegnato, un Ufficiale, che, dopo il saluto di rito, si presentò dicendo: “sono il tenente Cacciafesta, comandante la Compagnia Avieri dell’Accademia; per qualche giorno sarò addetto alla vostra Compagnia in attesa che rientri in sede il vostro Comandante effettivo.”
“Toh! Ecce homo, è proprio lui” mi dissi compiaciuto, dopo aver controllato il nome riposto nel mio portafoglio: “mica male” pensai.
Il Nostro confermò ufficialmente il numero di matricola di ognuno di noi: a me toccò il numero 2105 che indicava che ero in ordine progressivo il duemilacentocinquesimo allievo ammesso in Accademia dalla sua fondazione. Il Nostro divise la nostra Compagnia in piccoli gruppi, ciascuno destinato alle prime attività di prassi: chi in sartoria per la divisa, chi in barberia (addio alle folte e impomatate chiome borghesi ! ) , gli altri ai rispettivi famigli addetti al nostro corredo personale. Nel la forma più corretta che seppi assumere (era la prima volta, perdindirindina, che mi rivolgevo ad un signor Ufficiale!) mi presentai con il voi di prammatica al Signor Tenente, il quale mi accolse e mi ascoltò molto gentilmente, non dimenticando di rifilarmi alla fine ... la usuale doverosa paternale.
Al termine di questa prima giornata per tutti noi pinguini indubbiamente stressante, ci fu more solito l’adunata serale che si concluse con “saluto al Re”, e tutti noi a voce spiegata “viva il Re” , e poi “saluto al Duce”, e noi in coro” A noi”. Al “rompete le righe” fui chiamato dal signor Tenente che con un leggero simpatico sorriso mi disse di passare in camerata a prendere un paio di coperte con la maschera antigas in dotazione - eravamo in guerra - e di presentarmi al Reparto Celle per trascorrervi la notte. Personalmente non avevo commesso alcuna indisciplina, mi ero comportato molto correttamente, ma nella mia connaturale esuberanza giovanile presi il fatto con molto spirito, allegramente, quasi come merito acquisito.
Il Signor Tenente si degnò di spiegarmi: .... “il dormire in cella per gli allievi, specialmente per quelli del primo anno, fà quasi parte della routine giornaliera; il duro tavolaccio abitua alla disciplina, indurisce le ossa e fortifica il Carattere” dimenticandosi però di aggiungere che gli allievi quando, schiaffati in cella, incrementano vieppiù la loro conoscenza e l’uso del turpiloquio sia in lingua sia in dialetto.
Fummo molti, in bella fila, a presentarci al sottufficiale in servizio alle Celle, simpaticamente chiassosamente ed allegramente accolti dagli anziani del Corso Urano, ristretti anch’essi in camera di punizione.
Ci accolse un simpatico maresciallo, meridionale d.o.c., che ci invitò, a norma di Regolamento, a consegnargli le cinture dei pantaloni, i lacci delle scarpe, ed eventualmente le bretelle. Che strane regole hanno questi militari: che temevano che ci suicidassimo per impiccagione, perché puniti di CPS (Cella Punizione Semplice)??!! La simpatica ma corretta forma di nonnismo, i goliardici scherzi degli anziani, l’allegra spensieratezza di tutti, noi inclusi, avevano trasformato questo nostro primo ingresso in cella nel momento più allegro e spensierato di questa prima giornata tutta piena di novità.
Più tardi però, il nostro secondino ... dopo aver assegnato a ciascuno la propria cella (a me toccò la non dimenticata cella n. 14) passando lungo un paio di corridoi che aveva furbescamente riservati a noi pinguini, con voce scientemente querula, andava chiedendo “CChi ttiene ‘na sigarett , pe u povere marescialle?” Tutti noi... pollastrelli abboccammo immediatamente, affrettandoci ad offrire con borghese nonchalance, attraverso lo spioncino passavivande, non una sigaretta, ma l’intero pacchetto, più o meno pieno, che fu con rapace rapidità afferrato e sequestrato, perché fumare in cella era proibito, come da precisa norma di Regolamento ... furfantemente in precedenza a noi sottaciuta. Personalmente ci rimasi proprio male perché, forse più degli altri, avevo ad alta voce reiteratamente chiamato: “maresciallo, alla 14 io ci ò le sigarette Africa ed anche le superlusso del nostro Monopolio di Zara!”
Ed ora dovevo amaramente ammettere che ... io, civis Romanus, ero stato fatto fesso da un insignificante terrone campano, per di più nemmeno di Napoli capoluogo, di Napoli bene, di Napoli Vomero, di Napoli quant’altro, ma addirittura da un cafone di provincia: miseriaccia boia:non c’è più religione!!
Ai nostri vivaci prolungati mugugni il nostro sbirro, - moriammazzato - rispose con frase irridente “Signurini belli, nun sapite vui ch’a Leggge nun ammette ‘gnuranz !!??.’’ Alla sveglia, in ora antelucana (!!!) tutti noi, generosi donatori della sera prima fummo trattenuti in attesa di CPR di rigore, perché il Regolamento vietava anche di tenere sigarette e di fumare in cella… Ma in che mondo siamo capitati, gesummaria!!
Ero entrato in cella il 25 ottobre, non per una mancanza disciplinare, anzi - potrei dire - per una forma probabilmente di esibizionismo del tenente, una sotto specie di sciocco scherzo, da parte sua, che avrebbe potuto forse in minima parte essere accettato, solo nel caso in cui lo strano atteggiamento del nostro tenente fosse stato determinato dal volermi subito far capire che, proprio per la dignità dell’Accademia e per la serietà dell’Istituzione, non poteva essere ammessa alcuna forma di raccomandazione o intromissione esterna.
In tal caso avrei potuto rispondere che l’ambasciatore non porta pena, che ero stato solo latore di un messaggio di saluto senza fini reconditi; perchè poi, in verità, ritenevo di non aver bisogno di nessuno, io, come ad abundantiam fino ad allora avevo dimostrato. Purtroppo una serie di punizioni, ( ... una ciliegina tira l’altra, come dice la saggezza popolare) che si susseguirono a getto pressoché continuo, considerando pure che io non ero né ... una pasta frolla, né, tanto meno ... uno stinco di santo, punizioni che – ripeto - comportarono la mia permanenza notturna sul tavolaccio, salvo sporadiche interruzioni, fino al 10 dicembre, giorno in cui , usufruendo del condono tradizionalmente concesso in occasione della festività della Madonna di Loreto, nostra celeste Patrona, potei tornare finalmente a dormire su un materasso ... cristiano.
Fra l’altro, in conseguenza di una punizione collettiva, inflitta a gran parte della nostra Compagnia, avevo anch’io i “capelli rapati a zero” perché tutti puniti con 7 gg. di “cella di rigore” perché avevamo utilizzato l’ascensore alle 2.15 di notte, mezz’addormentati e stanchi dopo la solita faticosa intensa attività giornaliera nel tentativo di evitare ben 7 (sette) piani di scale per tornare dagli scantinati alle nostre camerate dopo molte ore trascorse al freddo durante un lunghissimo allarme aereo.
Sopportavo tutto io, magari a denti stretti”perché toto corde concordavo con la saggezza Apache che insegna “se vuoi l’arcobaleno devi sopportare la pioggia”. In conclusione, passata la iniziale baldanza, con il morale a terra, le ossa indolenzite e con lividi sparsi, e soprattutto con i capelli rapati a zero, provai un notevole senso di personale vergogna quando, in licenza natalizia, rividi per la prima volta mia madre, venuta a salutarmi al mio arrivo alla Stazione Termini di Roma.
Povera... santa mamma, non riusciva a capacitarsi di quanto avessero potuto fare (!?!?!?) al ... suo buono, bravo, perfetto e ... adorato Umbertino, cocco di mamma sua!! Tutto questo mi costrinse naturalmente ad un approfondito critico auto esame che mi portò alla ferma decisa promessa fatta a me stesso che non sarei stato mai più coinvolto in una qualsivoglia forma di raccomandazione, o anche presunta tale: ho l’inconfutabile orgoglio di aver mantenuto fede alla promessa fatta. dopo la ... pioggia aspettavo l’arcobaleno, io!
Pur convinto che tutti questi primi accidenti avessero avuto come causa indiscutibile e determinante la mia iniziale ingiusta punizione, lentamente, come positiva contropartita, pervenni al totale convincimento di aver comunque trovato in Accademia un ambiente estremamente ricco di significative valenze, dove regnavano schietto cameratismo e tanta, tanta fraterna amicizia con coetanei fra loro tutti legati da identità di ideali.
Unitamente con la realizzazione del mio sogno finalmente era arrivato il mio tanto atteso arcobaleno! Il marmo che si erge sul Piazzale Medaglie d’Oro dell’Accademia in memoriam dei tanti caduti in Essa educati, ricorda a noi compagni viventi che l’Accademia - con il suo sistema educativo di allora basato su una dura disciplina molto rigida, e spesso incompresa da noi giovani allievi - ha saputo plasmare, con indiscusso suo pieno merito, i nostri giovanili caratteri, educandoli indelebilmente al culto del dovere.
Et de hoc satis.

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